Mosaico di Morte

Mosaico di Morte è un romanzo che sto scrivendo da qualche anno, con rallentamenti e brusche fermate.

martedì 5 ottobre 2010

Capitolo 3

La via, vista dalla piazza intitolata al Vate, dava un forte senso di verticalità, specialmente nella sua parte culminante dove era molto stretta e buia. Questo la rendeva ombrosa anche in pieno giorno per via delle mura alte che la cingevano, ma a quell’ora di notte era ancora più avvolta dall’oscurità. Nonostante questo non faceva paura, non si trattava di una di quelle vie nelle quali si ha paura ad entrare dopo una certa ora. Il tratto poco illuminato era di un paio di centinaia di metri ed era circondato dalla chiesa di San Nicolò e dalla infinita biblioteca Classense. In quella stessa via all’interno di un palazzo molto vecchio un tempo c’era la sede dell’ufficio delle entrate ma adesso era utilizzata per allestire mostre sulla città.
Percorrendo la strada sul lato destro, l’unico con il marciapiede, si camminava con al fianco il palazzo sede dell’ufficio delle entrate e la chiesa ormai sconsacrata ed utilizzata per fini culturali. La biblioteca era dall’altro lato, imponente come un palazzo. La Classense era nata come convento dei monaci di Classe ed ora era stata riconvertita a biblioteca. Si trattava di costruzioni tutte molto alte, con le facciate a pietra a vista, era quindi impossibile, a meno che non lo si sapesse, notare la piccola porta in legno scuro, senza maniglia e batacchio, che interrompeva l’imponente muro laterale dell’ex monastero trasformato in biblioteca pubblica.
La persona che stava percorrendo la stretta via conosceva quella porta; come consuetudine si guardò intorno, estrasse una bella chiave antica in ottone da una tasca e aprì la porta ripetendo gesti che sapevano di consuetudine. Una lieve luce calda e giallastra illuminò per un tratto la strada, una luce naturale, la luce di alcune candele.
Le candele erano state appoggiate sul davanzale che fungeva da copricalorifero appena sulla destra dei cardini della piccola porta. Erano state accese da poco, come l’uomo intuì dalla loro lunghezza.
Entrò avendo cura di non far sbattere la porta, prese una delle candele che qualcuno prima di lui aveva acceso, colò un po’ di cenere su un piatto appoggiato al fianco delle candele, ve ne fissò sopra una e si avviò lungo il corridoio coprendo con la mano la fiamma in modo che lo spostamento non la facesse spegnere prima del tempo. L’anonimato dell’ingresso visto dall’esterno era in contrasto con le dimensioni e la ricchezza del corridoio interno. Si trattava di uno dei corridoi della biblioteca, con il fondo che passa da pietra a marmo a legno mutando continuamente il suono che i passi producono nell’aria e il soffitto molto alto a vela. Nonostante alle pareti vi fossero infiniti scaffali ed infiniti libri questo non era sufficiente ad attenuare il rimbombo che ogni passo faceva nell’immenso locale.
L’uomo ne percorse metà senza esitare, curandosi solo di non far spegnere la candela che lo guidava, e poi si girò verso uno scaffale alla sua destra, cercò un testo famigliare, il “Trattato sul governo della città di Firenze” di Savonarola, lo tolse dalla sua posizione sullo scaffale ed infilò la mano nello spazio lasciato dal tomo fino ad incontrare una leva in legno; la tirò a sé e gli scaffali adiacenti si staccarono dal muro facendo entrare nel lungo corridoio la luce azzurra dei neon che illuminavano il percorso sul retro dei libri. L’uomo spense la candela e la lasciò vicino alle altre tre ai piedi dello scaffale, si avviò nel corridoio illuminato artificialmente e richiuse lo spiraglio da cui era entrato.
Il percorso, leggermente in discesa e che girava lievemente verso sinistra, era stretto e umido, non protetto dagli stessi sistemi che garantivano lunga vita ai libri nei locali ufficiali della biblioteca.
Arrivò finalmente dove era diretto, una stanza quadrata con un soffitto a cassettoni molto alto con il pavimento a listelli in legno irregolari sbalzati qua e là dall’uso incauto delle sedie e dalla irreversibilità del tempo e le pareti ricoperte di scaffali con libri, armi ed oggetti antichi nella forgia e nell’utilità. Al centro un tavolo in legno circolare in cui erano stati disegnati otto spicchi alle cui estremità c’erano otto sedie, una era la sua, tre erano già occupate da altri ospiti, quattro non lo sarebbero mai più state.
“Ben trovati”, esordì l’uomo con gli altri ospiti con un tono di voce sofferente.
Nessuna delle persone che già si erano accomodate levò gli occhi per incrociare quelli dell’uomo, tutti sapevano chi mancava all’appello, chi non sarebbe più arrivato; uno dei presenti si allontanò dal camino spento da mesi sulla cui cornice c’erano foto antiche analizzate più e più volte con noia nell’attesa di qualcosa, un secondo chiuse un libro e lo ripose nella scaffalatura, il terzo si drizzò dalla posizione curva assunta sulla sedia.
“Cosa dobbiamo fare?” esordì un ospite minuto, con la testa calva che rifletteva luce madida di sudore, “sono morti, sono stati uccisi perché facevano parte di questa assemblea, dobbiamo nasconderci”.
“Non dire sciocchezze Giovanni”, rispose duramente l’uomo che un attimo prima era intento a sfogliare un libro, “noi esistiamo perché le cose devono andare come noi vogliamo”, iniziò rimarcando ogni volta il pronome noi, “non per subirle. I nostri fratelli sono state vittime di un sadico che ci conosce, che sa’ chi siamo, dobbiamo trovarlo prima che…” e si interruppe, capendo che non era necessario aggiungere ulteriori parole e che qualsiasi parola avrebbe avuto un effetto minore del discorso lasciato in sospeso.
“Chi è stato?”, singhiozzo un altro dei membri dell’assemblea arroccato sulla sedia in modo precario, “forse il custode, forse proprio Gianfilippo, solo lui poteva avercela con noi, lui ci ricattava. Lui ha ucciso gli altri per farci spaventare e poi si è suicidato”.
“Non credo” riprese con fare da capo l’uomo, “amici di amici mi hanno fatto avere le foto e lo stato del corpo lasciava poco spazio a congetture particolari. Dobbiamo stare attenti, dobbiamo guardarci da amici e nemici, qualcuno ha scoperto che esistiamo, qualcuno a cui fa gola il controllo che abbiamo sulla città. Forse lo stesso custode ha parlato, che il diavolo ne abbia premura e cura, ha accennato al potere che abbiamo, ha fatto i nostri nomi dicendo che era in grado di ricattarci e questo ha fatto gola all’assassino. Forse ha parlato di noi con la persona sbagliata I barbari sono tornati e alla nostra lega viene chiesto di rispondere, dobbiamo scoprire che contatti ha avuto quel figlio di nessuno negli ultimi tempi, con chi ha parlato, dove e perché”.
“Credo invece che dovremmo andare dritti alla polizia e spiegare chi siamo, cosa facciamo e chiedere aiuto. E’ compito loro indagare e scoprire, non nostro, non ne siamo capaci. Non è più il momento dei giochi e delle farse, ci sono di mezzo dei morti”.
“Vedi mio sciocco Filippo”, lo fulminò l’uomo, “questa lega non è mai stata un gioco od uno scherzo e se tu lo pensi credo che faresti bene a rivedere cosa è stato fatto per farti ottenere quella comoda poltrona da assessore. Non dire fesserie, tutti noi abbiamo fatto affidamento su questo gruppo per ottenere ruoli importanti e potere, andare alla polizia non aiuterebbe né loro né noi. Abbiamo fatto un giuramento e questo ha un valore, anche adesso che qualcuno ci sta colpendo. Vedrete, ne usciremo più forti e più potenti e nessuno saprà che esistiamo, nessuno saprà perché alcune “faccende” a Ravenna prendono certe direzioni inattese. E adesso basta, andiamo a ricordare e piangere i nostri amici come si deve, abbiamo perso delle persone care e delle persone importanti per la città, è doveroso rendere loro il giusto omaggio.” E così dicendo si alzò dalla sedia e fece un cenno del capo per salutare l’assemblea dimezzata. Quasi contemporaneamente anche gli altri tre si alzarono, ricomposero le sedie vicino al tavolo e lo seguirono verso l’uscita.
Mentre percorreva a memoria quel corridoio Filippo ripensò a quante volte lo aveva percorso negli ultimi trentacinque anni, quante volte lo aveva percorso sperando di trovarvi una soluzione dei suoi problemi e quante volte, in effetti, la lega lo aveva aiutato. Adesso qualcosa si era rotto, quel corridoio faceva paura, sembrava più stretto, più opprimente, sembrava che ognuno dei compagni che si erano alternati in tutti questi anni fossero contemporaneamente ritornati a restringere gli spazi reclamando un prezzo in cambio di tutto quello che aveva avuto. Il prezzo da pagare per tutto quello che avevano ottenuto era la vita. Forse, pensò, non è neppure un prezzo così alto.
La porta su via Rondinelli si aprì e quattro figure sgattaiolarono fuori separandosi senza guardarsi, chi si avviò con passo sveglio, chi illuminò la notte con la fiamma di un accendisigari e ne profumò l’aria con il sapore di un toscano, chi si soffermò come sempre sull’illuminazione fatta di vecchi lampioni a forma di tazza, ognuno ripeté un rituale che conosceva bene.
La loro associazione nasceva molto prima di loro e molte avversità aveva dovuto affrontare ma adesso c’era un nuovo pericolo, qualcuno sapeva che esistevano, qualcuno sapeva chi erano e cosa facevano. Mai in ottocento anni di storia membri esterni erano venuti a conoscenza dell’esistenza della lega e ne erano sopravvissuti. Questo assassino andava fermato, anche a costo della vita. La Lega doveva sopravvivere alle loro vite.
La sera umida accolse i passi dei quattro uomini i cui pensieri di preoccupazione lasciavano il posto alle menzogne quotidiane da raccontare al loro rientro a casa. Il buio li guidò fino ai rispettivi mezzi e lasciò il posto a fanali e abbaglianti.

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