Mosaico di Morte

Mosaico di Morte è un romanzo che sto scrivendo da qualche anno, con rallentamenti e brusche fermate.

mercoledì 29 settembre 2010

Capitolo 2

09 agosto

Il commissario Raggini chiuse per la decima volta nell’ultimo quarto d’ora la carpetta di cartoncino rugoso giallo che conteneva le informazioni sugli omicidi e le autopsie.
Le immagini, le centoquarantasette foto scattate sulle scene dei ritrovamenti e sui corpi, erano molto forti, i corpi erano stati uccisi lentamente, probabilmente torturati assieme, i polsi portavano segni di catene. Se li immaginava appesi per i polsi lungo le pareti, schiena al muro, dicevano le ferite sul torace, torturati fino alla morte.
Da mano esperta. Questa frase sul referto dell’autopsia attirava l’attenzione più delle altre. L’autopsia era stata effettuata a Parma, dai R.I.S. e quindi non c’erano dubbi sulla qualità dell’indagine ma l’espressione “mano esperta” lo aveva fatto sorridere, prima che capisse il senso di quell’affermazione.
Le cinque vittime avevano sofferto, non a lungo, ma intensamente. La loro scomparsa non era stata denunciata e questo aveva colpito il commissario. Si trattava di personaggi in vista che ogni cittadino avrebbe riconosciuto eppure nessuno fra parenti ed amici si era insospettito. Almeno fino al ritrovamento dei cadaveri.
Da tempo aspettava qualcosa che movimentasse la sua quotidianità; contrariamente a quanto si diceva in sua assenza il suo interesse non era per la carriera. Non sopportava di non fare nulla, non sopportava di dover impegnare semplicemente del tempo. Odiava trascinarsi nel vuoto delle ore, guardare i minuti scorrere lenti nel piccolo orologio nella parte bassa dello schermo del suo computer. Aveva scelto l’opzione di far scomparire la barra degli strumenti che contiene l’orologio per non vederlo. Certo, non era un iperattivo, uno di quelli tutta azione, inseguimenti, sirene accese e pistola in mano. Amava tenere la testa impegnata, non fare l’eroe. Ogni tanto gli piaceva rintanarsi nella solitudine della sua macchina e farsi guidare dalla strada, come insegnano le canzoni rock. Percorreva chilometri e chilometri accompagnato da radio locali o da compact disc che sceglieva in base al periodo ed allo stato d’animo. In quel periodo ascoltava spesso “Waiting for something to happen” dei Goldah, quasi come un auspicio o un presagio per la sua condizione. A furia di aspettare qualcosa era successo, qualcosa di molto grosso.
La cosa che più lo preoccupava, più ancora del fatto che chi aveva commesso quegli omicidi era un fottuto professionista, erano i nomi delle persone che erano state uccise. Quei cinque nomi l’avrebbero messo nei guai anche se si fosse trattato di un banale incidente automobilistico. Invece erano stati cinque omicidi chirurgici, come avrebbe detto il suo insegnante in accademia, cinque opere d’arte del crimine. Aveva odiato il gusto sadico e celebrativo con cui quell’untuoso professore descriveva le gesta dei criminali più famosi del bel paese. Nonostante gli sforzi del professore non era mai riuscito a pensare ad un criminale come a qualcuno di diverso da uno con molti problemi, figurarsi associargli l’aggettivo genio.
Invece quel criminale mancato, quell’essere tanto curvo sulla schiena quanto viscido e subdolo si ostinava a chiamarli geni del crimine, neanche avessero forzato la zecca dello stato armati solo di una forcina per capelli. Terminò di pensare al professore che raccontava lascivo i dettagli dell’ennesimo capolavoro di macelleria umana quando squillò il telefono.
Fece un solo trillo, giusto per distrarlo dai suoi pensieri, e poi tacque.
Raggini ritornò sulle schede dei cadaveri e rilesse i dati anagrafici.
Il corpo ritrovato a Classe era quello di Gianfilippo Fiumana, classe 1948, come tre degli altri ammazzati, ed era il Responsabile degli archivi storici del seminario, dipendente della Fondazione della Cassa dei Risparmi, un ente creato per la conservazione dei beni culturali da un istituto di credito con aspirazioni filantropiche. Uno dei dieci personaggi più in noti della città di Ravenna, altri quattro adesso erano stesi al suo fianco con un cartellino all’alluce del piede sinistro. I magazzine locali avrebbero dovuto trovare altre facce da copertina per i mesi che sarebbero seguiti. Fiumana era noto a tutta la città anche per la sua fisicità, un uomo alto quasi due metri, con la pelle chiarissima, le spalle ed il bacino stretti, movenze rigide e lente. Chissà quante mamme lo usavano per far star buoni i figli, “mangia la minestra altrimenti ti mando da custode dei libri”.
Mai stato sposato, viveva in una casa bassa del borgo San Biagio lasciatagli dai genitori adottivi, una casa di colore rosso arroccata su una delle mille dolci salite create dal dislivello della città, una di quelle vie antiche con le case tutte su un piano, con il ferro per pulirsi le scarpe alla sinistra del portone e le persiane verdi alle finestre; una di quelle casette con le bici nel corridoio d’ingresso con il marmo di mille colori e la cucina spaziosa, i letti alti ed una sola televisione sempre spenta. Lavorava fra le biblioteche della città ed il seminario, lui che alle porte del seminario era stato lasciato appena nato e che lì dentro era cresciuto così tanto così in fretta, dove aveva perso ogni speranza di uscire fino a quando, a dieci anni compiuti, non fu adottato da una coppia di anziani signori che avevano bisogno di aiuto e compagnia. Quel ragazzo così grande si era rivelato anche tanto fragile e i due anziani, innamorati di quel figlio, si erano consumati per farlo studiare.
Adesso era un orgoglio per la città, aveva catalogato e curato raccolte di libri di valore inestimabile con i suoi guanti bianchi indosso, lo avevano chiamato a valutare testi antichi anche in Cina ed aveva organizzato una mostra anche al Louvre di Parigi. Ogni tanto faceva lezione all’università, corso di laurea in conservazione dei beni culturali, portava la sua esperienza ed ogni volta rimaneva deluso dalla mancanza di passione dei giovani studenti, più interessati a mostrare biancheria dai pantaloni che ad apprendere come riconoscere le diverse tecniche di rilegatura.
Era morto in un posto chiuso come i suoi archivi, dove non si sentono rumori.
L’unica vittima a non essere nata nel millenovecentoquarantotto era Giorgio Giacomazzi, imprenditore locale, nato due anni dopo. Era stato trovato in spiaggia sotto una croce improvvisata nello stabilimento alla destra del suo. Giacomazzi era lo stereotipo della persona arricchita, aveva cominciato con un negozio di abbigliamento in via Cavuor e adesso possedeva un impero locale. Gli piaceva essere eccessivo e sopra le righe, preferiva essere volgare e scurrile, ruvido e duro nonostante dalla sua scheda emergessero studi interessanti ed una maturità classica. Si era ritagliato il ruolo di vero imprenditore romagnolo tutto intuito e sangue anche se in realtà non era proprio così. Più volte erano corse voci su di lui e su alcuni traffici attorno alle sue attività ma Giacomazzi era troppo furbo per sporcare e ripulire denaro.
Di fronte al seminario era stato ritrovato dalla bella poliziotta il pezzo forte della collezione: Guido Missiroli, presidente della cooperativa edile più importante del territorio. I malevoli dicevano che fosse il classico maneggione senza la cui autorizzazione non si muovevano neppure le foglie.
Scorrendo gli altri report ritrovò Giuseppe Portali, poeta dialettale la cui morte avrebbe lasciato il vuoto in molte serate delle sagre della zona ed in almeno una data di Ravenna bella di sera, la serie di incontri estivi nata per valorizzare la città. Eccentrico e famoso era l’unico poeta della zona che potesse mangiare grazie alla poesia; i suoi colleghi erano costretti dalla scarsa attenzione del pubblico a svolgere lavori ordinari per permettersi l’attività compositiva. Era un personaggio molto amato e rispettato, riconoscibile per gli occhiali verdi, bretelle e il borsalino e una valigia da medico in cuoio chiaro dal contenuto sconosciuto. Il suo corpo era stato trovato a Filetto, nella stessa chiesa di san Lorenzo in cui aveva deliziato molte stagioni estive.
Ultima vittima era Carmelo Cangini, vice presidente della fondazione cassa dei risparmi, stesso istituto per cui lavorava anche Gianfilippo Fiumana, ritrovato in pineta intento a raccomandare l’anima che si era venduto per la poltrona alla Madonna del silenzio che, in quanto tale, taceva alle sue richieste.
Cangini era l’unico dei cinque che avesse degli scheletri nell’armadio, in passato era stato al centro di uno scandalo legato al finanziamento di alcune opere da parte della fondazione nella ex jugoslavia, ma ne era uscito pulito anche se la sua figura nei salotti che contano della città ne era uscita molto ridimensionata.

Rileggendo le schede delle vittime il commissario pensò che peggio di così non poteva andare, sperava solo che la città reagisse in maniera composta e che non ci fossero ripercussioni sulla quotidianità, almeno per i primi tempi.
Prese l’agenda e calendarizzò i colloqui con coloro che avevano trovato i corpi cominciando da quel tale Tarez Bozan, lo slavo che tenevano in stato di fermo per il tentato furto. Nonostante le deposizioni ci fossero e fosse chiaro che nessuna delle persone era in qualche modo implicata con gli omicidi decise di sentirle ugualmente.
Prese il telefono per avvisare la portineria che contattassero le persone poi ci ripensò, decise di passarci di fronte personalmente, aveva bisogno di un buon caffè e in quel palazzo non l’avrebbe trovato di certo. Indossò l’orologio che appoggiava sulla scrivania quando lavorava, imboccò il corridoio, diede disposizioni in portineria e si affrettò verso lo stadio per prendere un caffè come piaceva a lui.

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