Mosaico di Morte

Mosaico di Morte è un romanzo che sto scrivendo da qualche anno, con rallentamenti e brusche fermate.

martedì 5 ottobre 2010

Capitolo 3

La via, vista dalla piazza intitolata al Vate, dava un forte senso di verticalità, specialmente nella sua parte culminante dove era molto stretta e buia. Questo la rendeva ombrosa anche in pieno giorno per via delle mura alte che la cingevano, ma a quell’ora di notte era ancora più avvolta dall’oscurità. Nonostante questo non faceva paura, non si trattava di una di quelle vie nelle quali si ha paura ad entrare dopo una certa ora. Il tratto poco illuminato era di un paio di centinaia di metri ed era circondato dalla chiesa di San Nicolò e dalla infinita biblioteca Classense. In quella stessa via all’interno di un palazzo molto vecchio un tempo c’era la sede dell’ufficio delle entrate ma adesso era utilizzata per allestire mostre sulla città.
Percorrendo la strada sul lato destro, l’unico con il marciapiede, si camminava con al fianco il palazzo sede dell’ufficio delle entrate e la chiesa ormai sconsacrata ed utilizzata per fini culturali. La biblioteca era dall’altro lato, imponente come un palazzo. La Classense era nata come convento dei monaci di Classe ed ora era stata riconvertita a biblioteca. Si trattava di costruzioni tutte molto alte, con le facciate a pietra a vista, era quindi impossibile, a meno che non lo si sapesse, notare la piccola porta in legno scuro, senza maniglia e batacchio, che interrompeva l’imponente muro laterale dell’ex monastero trasformato in biblioteca pubblica.
La persona che stava percorrendo la stretta via conosceva quella porta; come consuetudine si guardò intorno, estrasse una bella chiave antica in ottone da una tasca e aprì la porta ripetendo gesti che sapevano di consuetudine. Una lieve luce calda e giallastra illuminò per un tratto la strada, una luce naturale, la luce di alcune candele.
Le candele erano state appoggiate sul davanzale che fungeva da copricalorifero appena sulla destra dei cardini della piccola porta. Erano state accese da poco, come l’uomo intuì dalla loro lunghezza.
Entrò avendo cura di non far sbattere la porta, prese una delle candele che qualcuno prima di lui aveva acceso, colò un po’ di cenere su un piatto appoggiato al fianco delle candele, ve ne fissò sopra una e si avviò lungo il corridoio coprendo con la mano la fiamma in modo che lo spostamento non la facesse spegnere prima del tempo. L’anonimato dell’ingresso visto dall’esterno era in contrasto con le dimensioni e la ricchezza del corridoio interno. Si trattava di uno dei corridoi della biblioteca, con il fondo che passa da pietra a marmo a legno mutando continuamente il suono che i passi producono nell’aria e il soffitto molto alto a vela. Nonostante alle pareti vi fossero infiniti scaffali ed infiniti libri questo non era sufficiente ad attenuare il rimbombo che ogni passo faceva nell’immenso locale.
L’uomo ne percorse metà senza esitare, curandosi solo di non far spegnere la candela che lo guidava, e poi si girò verso uno scaffale alla sua destra, cercò un testo famigliare, il “Trattato sul governo della città di Firenze” di Savonarola, lo tolse dalla sua posizione sullo scaffale ed infilò la mano nello spazio lasciato dal tomo fino ad incontrare una leva in legno; la tirò a sé e gli scaffali adiacenti si staccarono dal muro facendo entrare nel lungo corridoio la luce azzurra dei neon che illuminavano il percorso sul retro dei libri. L’uomo spense la candela e la lasciò vicino alle altre tre ai piedi dello scaffale, si avviò nel corridoio illuminato artificialmente e richiuse lo spiraglio da cui era entrato.
Il percorso, leggermente in discesa e che girava lievemente verso sinistra, era stretto e umido, non protetto dagli stessi sistemi che garantivano lunga vita ai libri nei locali ufficiali della biblioteca.
Arrivò finalmente dove era diretto, una stanza quadrata con un soffitto a cassettoni molto alto con il pavimento a listelli in legno irregolari sbalzati qua e là dall’uso incauto delle sedie e dalla irreversibilità del tempo e le pareti ricoperte di scaffali con libri, armi ed oggetti antichi nella forgia e nell’utilità. Al centro un tavolo in legno circolare in cui erano stati disegnati otto spicchi alle cui estremità c’erano otto sedie, una era la sua, tre erano già occupate da altri ospiti, quattro non lo sarebbero mai più state.
“Ben trovati”, esordì l’uomo con gli altri ospiti con un tono di voce sofferente.
Nessuna delle persone che già si erano accomodate levò gli occhi per incrociare quelli dell’uomo, tutti sapevano chi mancava all’appello, chi non sarebbe più arrivato; uno dei presenti si allontanò dal camino spento da mesi sulla cui cornice c’erano foto antiche analizzate più e più volte con noia nell’attesa di qualcosa, un secondo chiuse un libro e lo ripose nella scaffalatura, il terzo si drizzò dalla posizione curva assunta sulla sedia.
“Cosa dobbiamo fare?” esordì un ospite minuto, con la testa calva che rifletteva luce madida di sudore, “sono morti, sono stati uccisi perché facevano parte di questa assemblea, dobbiamo nasconderci”.
“Non dire sciocchezze Giovanni”, rispose duramente l’uomo che un attimo prima era intento a sfogliare un libro, “noi esistiamo perché le cose devono andare come noi vogliamo”, iniziò rimarcando ogni volta il pronome noi, “non per subirle. I nostri fratelli sono state vittime di un sadico che ci conosce, che sa’ chi siamo, dobbiamo trovarlo prima che…” e si interruppe, capendo che non era necessario aggiungere ulteriori parole e che qualsiasi parola avrebbe avuto un effetto minore del discorso lasciato in sospeso.
“Chi è stato?”, singhiozzo un altro dei membri dell’assemblea arroccato sulla sedia in modo precario, “forse il custode, forse proprio Gianfilippo, solo lui poteva avercela con noi, lui ci ricattava. Lui ha ucciso gli altri per farci spaventare e poi si è suicidato”.
“Non credo” riprese con fare da capo l’uomo, “amici di amici mi hanno fatto avere le foto e lo stato del corpo lasciava poco spazio a congetture particolari. Dobbiamo stare attenti, dobbiamo guardarci da amici e nemici, qualcuno ha scoperto che esistiamo, qualcuno a cui fa gola il controllo che abbiamo sulla città. Forse lo stesso custode ha parlato, che il diavolo ne abbia premura e cura, ha accennato al potere che abbiamo, ha fatto i nostri nomi dicendo che era in grado di ricattarci e questo ha fatto gola all’assassino. Forse ha parlato di noi con la persona sbagliata I barbari sono tornati e alla nostra lega viene chiesto di rispondere, dobbiamo scoprire che contatti ha avuto quel figlio di nessuno negli ultimi tempi, con chi ha parlato, dove e perché”.
“Credo invece che dovremmo andare dritti alla polizia e spiegare chi siamo, cosa facciamo e chiedere aiuto. E’ compito loro indagare e scoprire, non nostro, non ne siamo capaci. Non è più il momento dei giochi e delle farse, ci sono di mezzo dei morti”.
“Vedi mio sciocco Filippo”, lo fulminò l’uomo, “questa lega non è mai stata un gioco od uno scherzo e se tu lo pensi credo che faresti bene a rivedere cosa è stato fatto per farti ottenere quella comoda poltrona da assessore. Non dire fesserie, tutti noi abbiamo fatto affidamento su questo gruppo per ottenere ruoli importanti e potere, andare alla polizia non aiuterebbe né loro né noi. Abbiamo fatto un giuramento e questo ha un valore, anche adesso che qualcuno ci sta colpendo. Vedrete, ne usciremo più forti e più potenti e nessuno saprà che esistiamo, nessuno saprà perché alcune “faccende” a Ravenna prendono certe direzioni inattese. E adesso basta, andiamo a ricordare e piangere i nostri amici come si deve, abbiamo perso delle persone care e delle persone importanti per la città, è doveroso rendere loro il giusto omaggio.” E così dicendo si alzò dalla sedia e fece un cenno del capo per salutare l’assemblea dimezzata. Quasi contemporaneamente anche gli altri tre si alzarono, ricomposero le sedie vicino al tavolo e lo seguirono verso l’uscita.
Mentre percorreva a memoria quel corridoio Filippo ripensò a quante volte lo aveva percorso negli ultimi trentacinque anni, quante volte lo aveva percorso sperando di trovarvi una soluzione dei suoi problemi e quante volte, in effetti, la lega lo aveva aiutato. Adesso qualcosa si era rotto, quel corridoio faceva paura, sembrava più stretto, più opprimente, sembrava che ognuno dei compagni che si erano alternati in tutti questi anni fossero contemporaneamente ritornati a restringere gli spazi reclamando un prezzo in cambio di tutto quello che aveva avuto. Il prezzo da pagare per tutto quello che avevano ottenuto era la vita. Forse, pensò, non è neppure un prezzo così alto.
La porta su via Rondinelli si aprì e quattro figure sgattaiolarono fuori separandosi senza guardarsi, chi si avviò con passo sveglio, chi illuminò la notte con la fiamma di un accendisigari e ne profumò l’aria con il sapore di un toscano, chi si soffermò come sempre sull’illuminazione fatta di vecchi lampioni a forma di tazza, ognuno ripeté un rituale che conosceva bene.
La loro associazione nasceva molto prima di loro e molte avversità aveva dovuto affrontare ma adesso c’era un nuovo pericolo, qualcuno sapeva che esistevano, qualcuno sapeva chi erano e cosa facevano. Mai in ottocento anni di storia membri esterni erano venuti a conoscenza dell’esistenza della lega e ne erano sopravvissuti. Questo assassino andava fermato, anche a costo della vita. La Lega doveva sopravvivere alle loro vite.
La sera umida accolse i passi dei quattro uomini i cui pensieri di preoccupazione lasciavano il posto alle menzogne quotidiane da raccontare al loro rientro a casa. Il buio li guidò fino ai rispettivi mezzi e lasciò il posto a fanali e abbaglianti.

mercoledì 29 settembre 2010

Capitolo 2

09 agosto

Il commissario Raggini chiuse per la decima volta nell’ultimo quarto d’ora la carpetta di cartoncino rugoso giallo che conteneva le informazioni sugli omicidi e le autopsie.
Le immagini, le centoquarantasette foto scattate sulle scene dei ritrovamenti e sui corpi, erano molto forti, i corpi erano stati uccisi lentamente, probabilmente torturati assieme, i polsi portavano segni di catene. Se li immaginava appesi per i polsi lungo le pareti, schiena al muro, dicevano le ferite sul torace, torturati fino alla morte.
Da mano esperta. Questa frase sul referto dell’autopsia attirava l’attenzione più delle altre. L’autopsia era stata effettuata a Parma, dai R.I.S. e quindi non c’erano dubbi sulla qualità dell’indagine ma l’espressione “mano esperta” lo aveva fatto sorridere, prima che capisse il senso di quell’affermazione.
Le cinque vittime avevano sofferto, non a lungo, ma intensamente. La loro scomparsa non era stata denunciata e questo aveva colpito il commissario. Si trattava di personaggi in vista che ogni cittadino avrebbe riconosciuto eppure nessuno fra parenti ed amici si era insospettito. Almeno fino al ritrovamento dei cadaveri.
Da tempo aspettava qualcosa che movimentasse la sua quotidianità; contrariamente a quanto si diceva in sua assenza il suo interesse non era per la carriera. Non sopportava di non fare nulla, non sopportava di dover impegnare semplicemente del tempo. Odiava trascinarsi nel vuoto delle ore, guardare i minuti scorrere lenti nel piccolo orologio nella parte bassa dello schermo del suo computer. Aveva scelto l’opzione di far scomparire la barra degli strumenti che contiene l’orologio per non vederlo. Certo, non era un iperattivo, uno di quelli tutta azione, inseguimenti, sirene accese e pistola in mano. Amava tenere la testa impegnata, non fare l’eroe. Ogni tanto gli piaceva rintanarsi nella solitudine della sua macchina e farsi guidare dalla strada, come insegnano le canzoni rock. Percorreva chilometri e chilometri accompagnato da radio locali o da compact disc che sceglieva in base al periodo ed allo stato d’animo. In quel periodo ascoltava spesso “Waiting for something to happen” dei Goldah, quasi come un auspicio o un presagio per la sua condizione. A furia di aspettare qualcosa era successo, qualcosa di molto grosso.
La cosa che più lo preoccupava, più ancora del fatto che chi aveva commesso quegli omicidi era un fottuto professionista, erano i nomi delle persone che erano state uccise. Quei cinque nomi l’avrebbero messo nei guai anche se si fosse trattato di un banale incidente automobilistico. Invece erano stati cinque omicidi chirurgici, come avrebbe detto il suo insegnante in accademia, cinque opere d’arte del crimine. Aveva odiato il gusto sadico e celebrativo con cui quell’untuoso professore descriveva le gesta dei criminali più famosi del bel paese. Nonostante gli sforzi del professore non era mai riuscito a pensare ad un criminale come a qualcuno di diverso da uno con molti problemi, figurarsi associargli l’aggettivo genio.
Invece quel criminale mancato, quell’essere tanto curvo sulla schiena quanto viscido e subdolo si ostinava a chiamarli geni del crimine, neanche avessero forzato la zecca dello stato armati solo di una forcina per capelli. Terminò di pensare al professore che raccontava lascivo i dettagli dell’ennesimo capolavoro di macelleria umana quando squillò il telefono.
Fece un solo trillo, giusto per distrarlo dai suoi pensieri, e poi tacque.
Raggini ritornò sulle schede dei cadaveri e rilesse i dati anagrafici.
Il corpo ritrovato a Classe era quello di Gianfilippo Fiumana, classe 1948, come tre degli altri ammazzati, ed era il Responsabile degli archivi storici del seminario, dipendente della Fondazione della Cassa dei Risparmi, un ente creato per la conservazione dei beni culturali da un istituto di credito con aspirazioni filantropiche. Uno dei dieci personaggi più in noti della città di Ravenna, altri quattro adesso erano stesi al suo fianco con un cartellino all’alluce del piede sinistro. I magazzine locali avrebbero dovuto trovare altre facce da copertina per i mesi che sarebbero seguiti. Fiumana era noto a tutta la città anche per la sua fisicità, un uomo alto quasi due metri, con la pelle chiarissima, le spalle ed il bacino stretti, movenze rigide e lente. Chissà quante mamme lo usavano per far star buoni i figli, “mangia la minestra altrimenti ti mando da custode dei libri”.
Mai stato sposato, viveva in una casa bassa del borgo San Biagio lasciatagli dai genitori adottivi, una casa di colore rosso arroccata su una delle mille dolci salite create dal dislivello della città, una di quelle vie antiche con le case tutte su un piano, con il ferro per pulirsi le scarpe alla sinistra del portone e le persiane verdi alle finestre; una di quelle casette con le bici nel corridoio d’ingresso con il marmo di mille colori e la cucina spaziosa, i letti alti ed una sola televisione sempre spenta. Lavorava fra le biblioteche della città ed il seminario, lui che alle porte del seminario era stato lasciato appena nato e che lì dentro era cresciuto così tanto così in fretta, dove aveva perso ogni speranza di uscire fino a quando, a dieci anni compiuti, non fu adottato da una coppia di anziani signori che avevano bisogno di aiuto e compagnia. Quel ragazzo così grande si era rivelato anche tanto fragile e i due anziani, innamorati di quel figlio, si erano consumati per farlo studiare.
Adesso era un orgoglio per la città, aveva catalogato e curato raccolte di libri di valore inestimabile con i suoi guanti bianchi indosso, lo avevano chiamato a valutare testi antichi anche in Cina ed aveva organizzato una mostra anche al Louvre di Parigi. Ogni tanto faceva lezione all’università, corso di laurea in conservazione dei beni culturali, portava la sua esperienza ed ogni volta rimaneva deluso dalla mancanza di passione dei giovani studenti, più interessati a mostrare biancheria dai pantaloni che ad apprendere come riconoscere le diverse tecniche di rilegatura.
Era morto in un posto chiuso come i suoi archivi, dove non si sentono rumori.
L’unica vittima a non essere nata nel millenovecentoquarantotto era Giorgio Giacomazzi, imprenditore locale, nato due anni dopo. Era stato trovato in spiaggia sotto una croce improvvisata nello stabilimento alla destra del suo. Giacomazzi era lo stereotipo della persona arricchita, aveva cominciato con un negozio di abbigliamento in via Cavuor e adesso possedeva un impero locale. Gli piaceva essere eccessivo e sopra le righe, preferiva essere volgare e scurrile, ruvido e duro nonostante dalla sua scheda emergessero studi interessanti ed una maturità classica. Si era ritagliato il ruolo di vero imprenditore romagnolo tutto intuito e sangue anche se in realtà non era proprio così. Più volte erano corse voci su di lui e su alcuni traffici attorno alle sue attività ma Giacomazzi era troppo furbo per sporcare e ripulire denaro.
Di fronte al seminario era stato ritrovato dalla bella poliziotta il pezzo forte della collezione: Guido Missiroli, presidente della cooperativa edile più importante del territorio. I malevoli dicevano che fosse il classico maneggione senza la cui autorizzazione non si muovevano neppure le foglie.
Scorrendo gli altri report ritrovò Giuseppe Portali, poeta dialettale la cui morte avrebbe lasciato il vuoto in molte serate delle sagre della zona ed in almeno una data di Ravenna bella di sera, la serie di incontri estivi nata per valorizzare la città. Eccentrico e famoso era l’unico poeta della zona che potesse mangiare grazie alla poesia; i suoi colleghi erano costretti dalla scarsa attenzione del pubblico a svolgere lavori ordinari per permettersi l’attività compositiva. Era un personaggio molto amato e rispettato, riconoscibile per gli occhiali verdi, bretelle e il borsalino e una valigia da medico in cuoio chiaro dal contenuto sconosciuto. Il suo corpo era stato trovato a Filetto, nella stessa chiesa di san Lorenzo in cui aveva deliziato molte stagioni estive.
Ultima vittima era Carmelo Cangini, vice presidente della fondazione cassa dei risparmi, stesso istituto per cui lavorava anche Gianfilippo Fiumana, ritrovato in pineta intento a raccomandare l’anima che si era venduto per la poltrona alla Madonna del silenzio che, in quanto tale, taceva alle sue richieste.
Cangini era l’unico dei cinque che avesse degli scheletri nell’armadio, in passato era stato al centro di uno scandalo legato al finanziamento di alcune opere da parte della fondazione nella ex jugoslavia, ma ne era uscito pulito anche se la sua figura nei salotti che contano della città ne era uscita molto ridimensionata.

Rileggendo le schede delle vittime il commissario pensò che peggio di così non poteva andare, sperava solo che la città reagisse in maniera composta e che non ci fossero ripercussioni sulla quotidianità, almeno per i primi tempi.
Prese l’agenda e calendarizzò i colloqui con coloro che avevano trovato i corpi cominciando da quel tale Tarez Bozan, lo slavo che tenevano in stato di fermo per il tentato furto. Nonostante le deposizioni ci fossero e fosse chiaro che nessuna delle persone era in qualche modo implicata con gli omicidi decise di sentirle ugualmente.
Prese il telefono per avvisare la portineria che contattassero le persone poi ci ripensò, decise di passarci di fronte personalmente, aveva bisogno di un buon caffè e in quel palazzo non l’avrebbe trovato di certo. Indossò l’orologio che appoggiava sulla scrivania quando lavorava, imboccò il corridoio, diede disposizioni in portineria e si affrettò verso lo stadio per prendere un caffè come piaceva a lui.

martedì 28 settembre 2010

Uno - Notte iniziale

La nottata trascorreva tranquilla. Il commissariato deserto o quasi. Cesare Trupia aspettava solo che si facesse mattina per passare le consegne al collega. Ormai da un paio di ore il 7 di agosto aveva lasciato spazio al giorno successivo e fra qualche ora il turno sarebbe finito. Tutto quello che doveva accadere in quella notte sarebbe successo al mare, ai lidi, non certo in una città che tenta di dormire al riparo da caldo, umidità e dalle spietate zanzare tigre. Fortunatamente al commissariato avevano predisposto ed installato l’aria condizionata, Trupia non sopportava quella città paludosa. Lui veniva dalla Sicilia, l’umidità se la spazzava via il vento, da quando l’avevano trasferito a Ravenna si sentiva la pelle ricoperta di una patina insopportabile e spesso la testa lo faceva impazzire.
Anche quella sera aveva male alla testa e l’aria condizionata cominciava a chiedere pegno alle sue ossa, la spalla cominciava a fargli male ma era abbastanza sicuro di non avere con sé un analgesico.
Decise di barattare nuovamente il piacere di una sigaretta con almeno una quindicina di silenziosi becchi di zanzara ed uscì sulla strada. Si sedette sugli scalini dell’ingresso pensando che di giorno sarebbe stato fuori luogo farsi vedere in quella posizione in divisa.
Mentre faceva mente locale sui suoi dolori fisici e morali annebbiandoli con il fumo di una Diana Blu, pensò che stava buttando via il suo tempo: passava il turno di lavoro contando i minuti che lo separavano alla fine, come se avesse qualcosa da fare terminate le sue otto ore. Nessuno ad aspettarlo a casa, nessun bar da frequentare con gli amici, nessun aperitivo in locali del centro alla moda. La moda sembrava sempre precederlo, appena riusciva a convincersi a frequentare un locale alla moda questo passava il testimone ad un altro locale, ad un’altra moda ad un’altra mania.
Non era per lui quella città, non lo era e non lo sarebbe mai stato. Un’isola in terra, così gliela avevano descritta a Roma, vedrà che si troverà bene. Gente diffidente, chiusa, degli isolani, solo che anziché avere il mare hanno la palude. Gli avevano fatto vedere la carta stradale, vede Trupia, è collegata male alle altre città come la sua Sicilia. E lui ci aveva creduto, aveva preparato i bagagli e due anni prima si era trasferito al Nord, come diceva orgogliosa la sua famiglia.
Questi pensieri lo tormentavano ogni volta che c’era un turno tranquillo, un turno notturno in agosto. Rientrò dopo essersi accertato di aver spento bene il mozzicone e si obbligò a concentrarsi di nuovo sulla partita che trasmettevano in TV, c’era la differita di Cesena Juventus, solita amichevole d’estate al Manuzzi. La Juve stava perdendo e Trupia non si ricordava se doveva esserne contento o meno. Pensò solo a quanto guadagnavano i calciatori, al fatto che a quest’ora, smaltita la fatica della partita probabilmente erano in un locale della riviera a contendersi cocktail e letterine, era per questo che ogni anno a Cesena c’erano amichevoli di lusso. Provò invidia e rabbia e si sentì mediocre. Mediocre perché faceva gli stessi discorsi di suo padre, stessi stereotipi, stesse macchiette.
Almeno la stanza in cui si trovava non era squallida, alle pareti due piante della città, una attuale ed una raffigurava Ravenna al tempo di Teodorico, il tricolore appoggiato in un angolo, foto di colleghi appese alle pareti (quest’ultimo particolare non gli piaceva, troppo americano) e una sedia come si deve, non di quelle il cui obiettivo intrinseco è impedire alla gente di addormentarsi. Per fortuna durante il turno notturno in estate era concesso stare in questa stanza e non all’ingresso. L’ingresso del commissariato era perennemente illuminato, non un attimo di tregua alla retina e Trupia preferiva i toni fiochi, si poteva tranquillamente dire che la sua vita era fioca.
Cercò di scrollarsi, pensò a chi altro ci fosse in quell’immenso commissariato con cui dividere un caffè ed una lamentela. Buttò un occhio al tabellone dei turni elesse il nome: Antonio Raggini. Che sfiga, pensò. Antonio Raggini era un giovane commissario neolaureato di Ravenna, cresciuto nella città e che pensava di redimerla tutta da solo. Passava tutti i turni di notte a leggere e studiare carte per essere pronto. Nessuno ha mai avuto il coraggio di chiedergli pronto per cosa.
In realtà Antonio si sentiva in colpa, il commissariato dove adesso si trovava porta il nome di suo nonno, eroe cittadino della grande guerra e lui spendeva ogni minuto a dimostrare che non era in quell’ufficio per meriti altrui ma per i propri. Compito arduo anche adesso che la prima repubblica era finita.
Proprio mentre si decideva ad andare ad offrire un caffè a quell’implacabile commissario della carta Trupia ricevette una telefonata.

“aiuto, è morto, non respira c’è sangue oddio” e poi l’inequivocabile suono di un conato. Trupia non capì neppure il sesso della voce, la comunicazione si interruppe. Corse ad attivare lo strumento tedesco di fabbricazione turca che serve per identificare il numero di partenza, aveva già avviato il display combattuto se pensare ad uno scherzo o alla fine della sua tranquillità notturna quando suonò il campanello del commissariato. Avviò per caso il macchinario per rintracciare il numero premendo l’unico tasto veramente utile fra i centoventitre della testierina e si avviò verso l’ingresso avvolto da mille pensieri che non ne formavano neppure uno sensato. Giunto nell’androne, dopo cinque secondi e trenta passi vide che alla porta, dietro al vetro anti-tutto c’era un fantasma. Una donna di al massimo cinquantacinque chili cercava di capire se all’interno vi fosse qualcuno appoggiando le mani al vetro per vedere all’interno. Occhi grandi e vestiti chiari, un fantasma, con una brutta ferita sulla fronte, un tamponamento, pensò riprendendo ad utilizzare le sue competenze da agente.
Trupia aprì e questa gli vomitò addosso le sue ultime due ore di terrore, oltre ad una cena abbondante.
Superato i trenta secondi di shock fece accomodare il fantasma in maniera sgarbata su una sedia e si diresse verso il telefono pensando di aver già visto quel volto, se doveva affondare nel vomito si sarebbe tirato dietro il professorino.
Giunto all’apparecchio vide che 4 delle 10 linee del commissariato erano occupate, capì che le successive ore per terminare il turno sarebbero state problematiche ma molto veloci.

Erano ormai le dieci del mattino dell’8 agosto e la sala adibita a sala stampa bramava un comunicato, una spiegazione. Il Questore ed il Prefetto avevano deciso di attendere fino a quell’ora per dare tempo a carta stampata e televisioni di organizzarsi, il comunicato da leggere era pronto da un paio d’ore così come si sapeva chi l’avrebbe letto, quel foglio.
Il commissario Raggini entrò nella stanza, salutò i presenti senza conoscerli e lesse quanto altri avevano scritto riassumendo e filtrando il suo resoconto.

“In data 07 agosto ultimo scorso, indicativamente dalle ore 23:00 alle ore 23:45 venivano rinvenuti nel territorio della provincia di Ravenna i corpi senza vita di 5 persone che al momento non è ancora stato possibile identificare. La coincidenza del ritrovamento e lo stato in cui sono stati ritrovati gli stessi lascian supporrre si tratti di omicidi, verosimilmente fra loro collegati. Il Questore ed il Prefetto annunciano che alle ore 16.00 vi sarà una nuova conferenza stampa in cui verranno dati ulteriori ragguagli.”
Incurante delle domande che gli pervenivano Raggini raccolse i fogli bianchi dal tavolo e si diresse verso l’uscita della sala posta alla destra della stessa incamminandosi lungo il corridoio. La mente attraversata da lampi contrastanti, a tratti persa nella ricerca di un filo conduttore altisonante, sette sataniche, mafia, scandali politici, a tratti ricondotta alla imminente quotidianità. Le divagazioni mentali erano sempre state il suo limite, il mondo parallelo nel quale la vita scorreva più veloce e non vi erano attese lo aveva tormentato sin da piccolo. Era una condanna, tutte le volte che vedeva la sua vita nel futuro temeva che la visione avuta gli impedisse di realizzarlo quel futuro. Aveva calciato un pallone e sognato di vincere uno scudetto ma la sua carriera non aveva mai superato il torneo di calcetto di San Rocco; aveva recitato alle superiore vedendosi in abito elegante ma particolare mentre ritirava un premio della critica in qualche festival e invece gli erano toccate due battute in uno spettacolo troppo all’avanguardia per una città che era un’isola in terra; aveva studiato sociologia, criminologia e scienze politiche vedendosi proiettato in stanze buie e fumose in orari da insonni mentre trovava accordi segreti con spie internazionali per la risoluzione di conflitti e crisi di cui il mondo non avrebbe avuto alcuna memoria e invece si trovava a combattere contro il suo cognome per dimostrare il suo valore.
Nel breve tratto di corridoio che lo portava nella sala riunioni fu attraversato da pensieri che avrebbero riempito la giornata di chiunque. Era stanco il commissario Raggini di essere un investimento per il futuro. Era stanco che i superiori parlassero di lui come del futuro qualcosa, lui aveva voglia di presente, aveva voglia di sedersi al tavolo con qualcuno e giocare le sue carte. Per i superiori era l’eterno neo laureato, neo promosso, neo commissario, nessuno credeva veramente in lui, nessuno lo voleva veramente bruciare, nessuno voleva esporlo ma aveva capito che nessuno lo voleva proteggere, proteggevano il suo cognome.
Suo nonno era stato un eroe, Raggini a Ravenna era uno di quei cognomi che fanno brillare gli occhi, suo padre era stato abbastanza furbo e accidioso da vivere all’ombra di questo cognome senza sfidarlo e senza esporsi, semplicemente godendo della luce riflessa.
Ad Antonio questo non poteva bastare e non sarebbe bastato.
Solo a pochi passi dalla porta si ricordò di quello che era accaduto, di quello che l’aspettava e del fatto che non dormiva da molto tempo.
Giunto alla porta mise una mano sulla maniglia ergonomica in acciaio che gli procurò una breve scossa, si concentrò e pensò che poteva essere la sua occasione, che era pronto e cominciò ad immaginarsi le prime pagine dei giornali. Si scrollo, sorrise del suo modo di essere, girò la maniglia che tanto ergonomica non era e aprì la porta.


La notte era anonima come mille altre, senza un’emozione che avesse la forza di farsi notare nel grigiore di tanta banalità e tanta voglia di fuga. Si tolse i vestiti in fretta, non amava quell’attimo di intimità prima di ogni rapporto. Si scostò svelta il perizoma, senza neppure toglierlo, come una prostituta qualunque, ormai da tempo aveva smesso di indossarlo in maniera ricercata e di utilizzarlo come strumento di seduzione per i suoi concubini. Non cercava più uomini da sedurre, da conquistare, da ammaliare, aveva bisogno di impegnare alcuni istanti delle sue notti, di riempire i silenzi e le solitudini che spaventano con attimi di intimità fugace e rabbiosa, con qualcosa che la impegnasse mentalmente e fisicamente. Purtroppo anche questo espediente aveva perso di forza, ormai aveva rapporti con uomini da bar senza neppure esserne cosciente, era solo una nuova routine, grigia, solitaria.
L’uomo la guardava incredulo, faceva quest’effetto quando scioglieva i capelli e si toglieva i vestiti ma aveva smesso di compiacersene da anni, aveva cominciato a ritenerlo quasi fastidioso e troppo invadente.
Lui la prese con goffaggine, sperando di riuscire a ricreare il pathos che alcuni film fanno credere esista ma riuscì solo ad infastidirla di più, cercava di avere attenzioni che non poteva conoscere e che lei non cercava più da tempo.
Adesso lei l’aveva sopra, dentro e come ogni volta cominciò a piangere. Non sopportava di avere continui rapporti sessuali con uomini che rimorchiava senza impegno e senza futuro ma era l’unico modo che conosceva per non restare da sola, per non pensare che meritava una vita migliore. Le sue serate ormai si assomigliavano, un bar, un drink, qualche sguardo ben recitato nella direzione più insperata, qualche battuta da ochetta svampita e un’allusione diretta gettata come un amo da pesca. Un amo infallibile che quasi ogni sera attirava compagni diversi in città diverse. Aveva smesso anche di cercare uomini attraenti, che pure avrebbero fatto carte false per una follia con lei, cercava i respinti, i disillusi, coloro che davano senso alle loro giornate in un bar in compagnia dello stesso liquore con cui avrebbero iniziato la mattina seguente.

Non piangeva singhiozzando, solo un paio di lacrime le rigavano la guancia destra come se si trattasse di un rituale, una Pierrot triste e sconsolata senza la forza per spingersi ad uscire.
Quando lui cominciò ad esplorare il suo corpo lei provò disagio, sopportava sempre più a fatica di concedersi all’atto sessuale ma non riusciva a concedersi quando qualcuno aveva la pretesa di toccarla, accarezzarla, voleva essere scopata, coperta da un uomo per il minor tempo possibile, niente più. Da tempo aveva rinunciato a sentirsi desiderata, a godere del far salire il desiderio negli uomini, erano gioie che aveva assaporato fino a qualche anno prima ma che non appartenevano più a quelle sue fughe dal mondo.
Invece per l’uomo lei era una rivincita, l’adolescente che a scuola non lo guardava e se lo guardava rideva; la ragazza che aveva sempre sognato nella sua intimità da ragazzo, il trofeo da esporre e di cui vantarsi. Quante volte aveva dovuto pagare per poter godere di una donna, adesso questa donna aveva pagato da bere per lui. Ma non era abbastanza, era deciso ad ottenere tutto, pensava di poterla fare impazzire, di riuscire a ripagarla con un orgasmo da urla e unghie sulla schiena; voleva farle inarcare la schiena come una gatta sotto i colpi del suo piacere, voleva regalarle un momento indimenticabile.
Fece affidamento a tutte le sue capacità amatorie, cercò con avidità zone erogene sul suo corpo, le esplorò il seno, il collo, il ventre e l’ano ma lei non reagiva, quando capì che non avrebbe fatto breccia nel suo piacere decise di assecondare solo il proprio e non gli ci volle molto.
Ancora una volta Agata si scoprì a pensare alla sua condizione quando l’uomo sopra di lei ebbe un fremito scomposto, tentò di baciarla e poi si distese al suo fianco.
Meccanicamente cominciò a rivestirsi mentre l’uomo ancora ringraziava il Signore e tutti i santi che gli avevano dato la possibilità di avere un aneddoto nuovo e gustoso per gli amici del bar, già si immaginava a raccontare di quell’angelo biondo che aveva domato, certo avrebbe arricchito il racconto con virtuosismi e perversioni sessuali che lei non si era concessa ma questo nessuno l’avrebbe mai contestato.
Agata terminò di rivestirsi, guardò l’uomo nella speranza di trovare qualcosa di diverso e poi si diresse verso l’uscita pregando di riuscire ad ottenere quei turni notturni in più che aveva chiesto in commissariato.
L’uomo la chiamò, le rivolse un complimento volgare che Agata ignorò e le propose di soddisfare con piacere altre necessità nei giorni successivi, qualora si fossero presentate; quando chiuse la porta sentì lo stridere delle pietrine di un accendino che si illumina e sperò che l’uomo si stesse dando fuoco.
Scese in strada, l’umidità la avvolse come un velo e sorrise quando pensò che almeno nell’appartamento c’era l’aria condizionata. Vomitò accanto ad un’auto e si diresse verso la sua, una vecchia Y10 bianca, l’auto che piace alla gente che piace, sorrise di nuovo.
Salì, mise in moto e si diresse verso Ravenna, cercando di ricordare in quale paese fosse arrivata quella sera. Guidò trenta minuti e poi entrò in città imboccando viale Randi verso il centro città, la radio trasmetteva canzoni che di giorno non si sentono più se non nelle richieste di qualche nostalgico di jeans corti e spalline imbottite, brani anni ottanta di musica italiana, Cocciante, De Gregori, Venditti. Decise di allungare la strada, a casa non l’aspettava nessuno e la musica le impegnava la testa fino quasi a farla cantare. Imboccò Via Oberdan, passò davanti alla sua ex scuola il liceo scientifico, una costruzione del ventennio che si diceva fosse stata usata come ospedale per le torture, ed uno strano flusso di pensieri le attraversò la mente, pensò a Dante, al contrappasso e si disse che era quello che stava accadendo a lei: da splendida adolescente che nessuno poteva ambire ad avere a incantevole donna che chiunque poteva possedere, almeno per qualche minuto.
Percorse tutta Via Oberdan con le sue case inaspettate e giunse fino alla piazzetta con queste riflessioni. Al centro della piazzetta, all’interno dell’aiuola, sorge una colonna con alla sommità una statua della Madonna cui i vigili del fuoco portano i fiori per Santa Barbara. In alcuni periodi dell’anno un faro posto sul Duomo antistante proietta l’immagine di questa statua sul muro del seminario che sta di fronte al Duomo creando un effetto suggestivo. Agata, entrando nella piazza ne percorse circa trequarti e poi voltò lo sguardo sopra la spalla sinistra per vedere l’immagine purificatrice proiettata nel muro.
Quello che vide, sotto l’immagine luminosa della Madonna le cambiò ben più di quanto sul momento riuscisse ad immaginare.
Riuscì solo ad invocare lo stesso Dio che prima il compagno di una notte aveva ringraziato e poi la sua vettura concluse violentemente la sua corsa contro un panettone di cemento, di quelli messi ad impedire l’ingresso nel porticato di fronte al Duomo.
Si scosse, la spalla ed un seno doloranti per l’abbraccio protettivo della cintura, la testa intontita dall’air-bag, raccolse i pensieri e girò il capo nuovamente verso la Madonna.
Sotto la figura di luce, sul muro di grandi mattoni a destra dell’ingresso del seminario c’era una grossa macchia di sangue che arrivava a terra fino al corpo da cui era sgorgato quel sangue. Si trattava di un uomo, nudo, morto. La macchina, anche se compromessa non si era ancora spenta e Agata, guidata dalla paura che avrebbe dovuto imparare a gestire ripartì verso la questura commettendo il suo secondo errore della serata.


“Questa sera ti voglio stregare”. La giornata di Chiara era cominciata con questo sms di Luca ed era proseguita nell’attesa che venisse sera. Il pomeriggio al mare con le amiche a parlare sotto un ombrellone mangiando gelati e commentando questo o quel ragazzo che era stato stronzo e bastardo con una o con l’altra ed insultando ex amiche rivelatesi facili e traditrici. L’estate trascorreva piacevole e frivola, senza impegni eccessivi se non insormontabili problemi da ragazzini. Quel ragazzo invece era incredibile, era quello giusto. La loro relazione era ancora giovane, solo qualche mese, anzi tre mesi ventidue giorni e dodici ore nel momento in cui aveva ricevuto l’sms, ma era già speciale. Aveva conosciuto tanti inizi, troppi secondo sua madre, e adesso sentiva qualcosa di diverso. C’era poesia, c’era il senso di vuoto nello stomaco, c’era la voglia di essere migliore. Lo aveva conosciuto mentre non lo stava cercando e questo lo rendeva ancora più “quello giusto”.
Così aveva cominciato a prepararsi un’ora prima, si era fatta un trattamento da donna, si era messa i jeans che aveva preso di una taglia più piccoli in un negozio in centro in cui aveva spiegato che erano un regalo per una cugina più giovane e che ipnotizzavano gli sguardi dei ragazzi, aveva indossato il reggiseno in abbinamento con il perizoma e sperava di dovergli far vedere come stavano bene sul suo corpo abbronzato, e sul tappetino della macchina pensò arrossendo e ridendo. Per circa venti minuti studiò l’acconciatura, non sopportava quei capelli così lunghi come solo le bambine riescono ad avere, biondi e lisci fino in fondo al culo. Sua mamma li adorava, diceva che le stavano benissimo e che erano bellissimi, lei rispondeva che stavano benissimo ad una dodicenne, non ad una che stava per terminare il suo settimo anno da teen-ager. Li raccolse in un concio molto alto che le metteva in risalto gli zigomi marcati e accentuati dal trucco, voleva essere provocante stasera.
Luca arrivò puntuale, bello come solo a lei poteva sembrare, jeans larghi, camicia azzurra aperta quel tanto da non essere volgare, sguardo innamorato e infradito in cuoio scuro. Si era preparato nei dettagli, portava i capelli con rigoroso disordine, e profumato con il profumo che lei gli aveva regalato ventidue giorni e qualche ora prima e che sapeva di fresco e di passione, l’abbronzatura col segno degli occhiali da sole che faceva tanto atleta.
Salirono in macchina, Lui si sfilò le infradito e le posò sul retro, per guidare scalzo, si avviarono, girarono l’angolo e si fermarono per potersi salutare lontano dallo sguardo protettivo della madre. Luca e Lucia, la madre di Chiara, non si erano piaciuti, lei iperprotettiva e lui con i modi di fare del mascalzone.
Se non fosse stata Chiara avrebbe mandato a cagare un mucchio di cose oltre che la mamma protettiva e il fatto di doversi allontanare per baciarla senza un paio di occhi addosso.
Ma quella ragazza aveva fatto breccia, aveva cominciato a saltare gli allenamenti di pallone per lei e anche a scuola le cose andavano meglio, da quando c’era lei a spiegare la matematica ed il latino. Certo a settembre avrebbe dovuto far i conti con la preparazione atletica e con due crediti formativi da recuperare ma era fiducioso e non vedeva ostacoli insormontabili di fronte a lui, di fronte a loro.

La macchina ripartì dopo che le loro labbra si furono salutate.
Attraversarono Ravenna deserta perché impegnata a cena e presero la Ravegnana in direzione di Forlì. Luca cominciò a raccontarle di questa chiesetta di campagna, senza tetto, con i muri scrostati. Dovrebbe chiamarsi San Lorenzo disse lui sognante mostrando quel tanto id incertezza per non far sembrare la cosa troppo preparata, ci sono capitato in motore l’altro giorno con due amici e ho pensato di portartici. In realtà conosceva da tempo quel posto e aveva già provato un paio di volte il percorso ed il discorso di avvicinamento.

Luca gliene parlò a lungo con l’entusiasmo e la passione che lei gli risvegliava, arricchendo ogni dettaglio con un aneddoto, una battuta. Era rimasto incantato da quel luogo senza tempo e voleva condividerne la magia con lei da subito, annegandola di parole e spiegazioni.
Chiara in realtà conosceva bene quel posto, ci era stata la prima volta tre anni fa, con Giacomo e poi almeno altre quattro volte. Non erano mai soli, c’erano sempre altri ragazzi, bottiglie di birra o vodka, spinelli. Odiava quel posto e quello che vi aveva fatto dentro, anche se non era mai stata una brava cattolica sentiva di averla profanata, in qualche modo.
Adesso che ci stava andando con Luca sentiva senza dubbio di averla profanata, di aver tolto magia ad un luogo che con lui sarebbe potuto essere meraviglioso.
Finse curiosità a stupore e sorrise verso il suo amore.
Giunsero alla lingua di ghiaia che dalla strada conduce all’ingresso della chiesa, si lasciarono sulla sinistra un grosso albero di guardia e spensero la macchina ed i fari che illuminavano l’ingresso.
Luca tirò fuori una candela, l’accese ed uscì. Chiara lo seguì a disagio. Man mano che avanzava il suo disagio cresceva, ricordava le serate sbagliate con gli amici sbagliati per seguire un amore finto e bastardo cui strappava promesse che non avrebbe mantenuto. Si avvicinò a Luca sperando di potersene andare, i piedi nei sandali da schiava inumiditi dall’aria. Giunti all’ingresso della piccola chiesa alzò gli occhi e le stelle la fecero sentire meglio, odiava quel posto ma amava chi era al suo fianco.
Entrarono e cominciarono a guardarsi intorno, sempre più abbracciati, sempre più a disagio. Alle pareti c’erano residui di dipinti e affreschi ormai indecifrabili e a terra erbacce avevano avuto la meglio sul vecchio pavimento ricoprendolo di lunghi fili d’erba. Quando Luca le chiese cosa ne pensasse lei sorrise e mentì “mi hai stregato”. Alzò gli occhi al cielo incorniciato dai vecchi muri e con le mani cercò un abbraccio. Girarono tenendosi per mano dentro l’abside e si affacciarono nel piccolo campanile sulla destra.
Appena dentro a quel piccolo parallelepipedo di mattoni che si ergeva verso il cielo, qualcosa finì sulla spalla nuda di Chiara, una sostanza densa, un uccello del cazzo, pensò.
Quando la candela illuminò la spalla nuda Chiara rabbrividì, alzò gli occhi e svenne. Mentre perdeva i sensi muovendosi rallentata come nei film e con negli occhi e nella memoria il corpo appeso di quell’uomo nudo pensò che era fortunata, con Luca accanto nulla poteva accaderle e svenire era un bel modo per non dover guardare quello spettacolo.

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In televisione una replica estiva di Blob stava finendo e Aibangee Olad Fortune indossò la sua tenuta da guardiano. Blob era la trasmissione che preferiva, non capiva tutto ma le immagini erano di per sé significative. Non capiva molto l’italiano ma per fortuna non serviva molto nel suo lavoro. Aveva trovato quella occupazione attraverso sua cugina che faceva le pulizie e altro presso la casa di un mezzo politico cui aveva fatto intendere che, per continuare ad apprezzare certi extra, doveva trovare un lavoro tranquillo per quel cugino così grande e così disperato. Aibangee Olad Fortune si vergognava del modo in cui aveva trovato lavoro ma sua cugina l’aveva rincuorato. Il fine giustifica i mezzi gli ripeteva e si ripeteva per convincersene. Il lavoro non era male, doveva percorrere la pineta di Marina di Ravenna almeno duo volte a notte per un totale sei chilometri ed ottocento metri a distanza di almeno due ore e non prima delle due di notte. Torcia in mano doveva verificare che qualche disperato come lui non vi si accampasse per trascorrere la notte. Fortune era perfetto per quel lavoro, alto quasi due metri, spalle infinite e cosce da toro, il viso sfregiato da uno scafista albanese gli dava un’aria pericolosa che in realtà non gli apparteneva.
Era un gigante buono, lo era sempre stato, anche quando viveva in Nigeria con la sua famiglia; adesso li sentiva da un call center vicino alla stazione una volta al mese, gli diceva quanti soldi gli avrebbe spedito e mentiva su tutto il resto, compreso il lavoro della cugina.
Spense la televisione ed uscì dalla costruzione adibita ad ufficio che era all’ingresso della pineta, era in largo anticipo rispetto agli orari che gli erano stati assegnati ma stare al chiuso era diventato insostenibile. L’aria era calda e umida, sentì la camicia della divisa attaccarsi al suo corpo e ben presto avrebbe sentito anche i becchi delle zanzare che ogni notte gli tormentavano le gambe. Gli piaceva la notte e gli piaceva la pineta; se guardava in alto poteva vedere le stelle e fingere di essere in Africa dove l’inquinamento luminoso non esiste. Certo il cielo non aveva lo stesso disegno, alcune stelle erano più in alto di come le ricordava ma presto imparò a riconoscerle anche da Marina di Ravenna.
Si incamminò con la torcia spenta, finché poteva voleva godersi il buio e la luce della luna. Arrivò fino ai campeggi e accese la luce per non spaventare i villeggianti, in fin dei conti lui era un omone nero e la sua ombra era ancora più grossa.
Camminò pensando a sua cugina, come sempre. Lei era arrivata in Italia cinque anni prima di lui e aveva sempre raccontato di un posto pieno di opportunità e libertà. Appena giunto in Italia Fortune fu stordito da quello che trovò, non c’erano né opportunità né libertà per quelli come lui. Era riuscito a raggiungere la cugina e aveva cominciato a vendere oggetti da poco sulla spiaggia. Era arrabbiato con lei, non capiva, nelle sue lettere non parlava di quello che faceva realmente, diceva di fare la commessa in un bel negozio in cui doveva indossare una divisa scura che la slanciava e la faceva somigliare ad una hostess. Ben presto imparò a mentire anche Fortune con chi era lontano, imparò a raccontare favole sulla sua nuova vita, sulle opportunità che c’erano per un ingegnere nigeriano in Italia, se aveva voglia di lavorare. Immaginava sua mamma che raccontava le sue storie per incentivare i suoi fratelli a studiare.
La realtà era un’altra, guardiano della pineta di notte, bracciante agricolo in nero di giorno, qualche serata extra come buttafuori in locali per ubriaconi molesti, ma era il meglio cui potesse aspirare. Lavorava tanto e nel tempo libero stava con Hope, sua cugina, e si facevano coraggio raccontandosi prima le giornate tristi e vuote e poi rinfrancandosi parlando dell’Africa.
Fortune aveva dimenticato se desiderava tornare nel suo paese, forse un giorno, se fosse riuscito a mettere via abbastanza soldi per avere una casa ed un po’ di terra sarebbe tornato a coltivare fra la sua gente.
Camminò riscaldandosi il cuore con pensieri su sua madre e su Hope, amava sua cugina, l’aveva sempre amata, per questo non ricordava se voleva realmente tornare a casa.
Percorsi i primi millecinquecento metri arrivò in prossimità del capitello della Madonna che segnava circa la metà del suo percorso di andata. Gli piaceva quel luogo di culto strappato alla pineta. Si tratta di un piccolo assembramento di ceppi di legno, che i fedeli usano come sedute, attorno ad un’immagine sacra ed ad un altare. Durante il giorno Fortune vedeva tante persone andare verso il capitello per raccogliersi in preghiera qualche istante. Gli piaceva quel posto perché anche i luoghi di culto cui era abituato lui erano così, poveri ma magici.
Quando fu abbastanza vicino scorse una persona seduta su uno dei ceppi che fungono da sedia in direzione del piccolo altare.
Fu colpito, la persona stava pregando. Altre volte aveva incontrato persone nei suoi giri ma mai fedeli in preghiera, amanti appassionati, disperati, tossici, prostitute coi loro clienti, ragazzi in vena di bravate, mai un fedele.
Richiamò la persona per destarla dalle sue preghiere sperando di non avere problemi. La persona non rispose, Fortune si guardò intorno per accertarsi che non si trattasse di un’imboscata, che non lo volessero picchiare. La pineta era immobile, ferma come l’aria calda d’agosto.
Diresse il fascio di luce sulla persona e solo allora si accorse che era nuda e ricoperta di sangue.
Urlò paura, rabbia e rigetto in francese ed inglese e quindi si avvicinò, prese la radio e cercò aiuto.


Tarez Bozan correva a più non posso spremendo i muscoli e i suoi polmoni poco più che ventenni. Non si girò indietro ma sentì che lo sbirro lo stava inseguendo ancora, nonostante pesasse almeno trenta chili più di lui ed avesse il doppio dei suoi anni. Ansimava come un toro il bastardo.
Tarez era arrivato a Marina di Ravenna cinque ore prima, in treno ma senza biglietto fino a Ravenna e poi con un Ciao rubato. Aveva aspettato che scendesse la notte cercando di fare il bravo, di non attirare attenzioni eccessive e di placare per un po’ la sua rabbia istintiva .Era lì per un motivo, doveva fare razzia di marsupi in spiaggia fra le giovani coppie in intimità. Era la terza volta che scendeva in Romagna partendo da Mantova per andare a derubare gli innamorati. Le prime volte con suo fratello ma da quando l’avevano beccato mentre si faceva una sega guardando due giovani che facevano l’amore su un lettino non aveva più soci. Che idiota, farsi beccare coi pantaloni calati e il cazzo dritto.
In fondo era meglio così, non c’era molto da spartire. Certo essere da soli comportava sempre il rischio di imbattersi in una banda e di essere pestato e derubato a sua volta ma aveva il coltello e l’aveva già usato in passato.
Quella sera era rimasto fregato anche lui, aveva appena preso un marsupio da sotto un ombrellone, il proprietario era impegnato con un reggiseno e non se n’era accorto, era giustificabile. Tarez aveva preso il marsupio e si era allontanato. Ha fregarlo era stato il mare, la strana luce che facevano le onde. Il mare si increspava leggermente e la spuma era accesa, come se fosse illuminata da un neon. Solo il giorno dopo avrebbe saputo che il fenomeno si chiama mare in ardore. Accade con la luna piena e quando è molto caldo e c’è molta siccità. In acqua c’erano diverse persone che sembravano alieni tutte ricoperte di acqua luminescente.
Aveva perso almeno trenta secondi a guardare il mare e il ragazzo, che cercava il marsupio per prendere un profilattico, aveva urlato non trovandolo e vedendo quello slavo piantato a fissare il mare.
In un attimo si rese conto che poco più avanti c’era una coppia formata da due poliziotti in borghese che aspettavano solo lui. Cominciò a correre in direzione del molo maledicendo in slavo quella troia che aveva deciso così in fretta di farsi scopare da quel frocio.
Aveva cominciato a correre sulla sabbia pensando di essere imprendibile nel buio veloce e leggero com’era ma quel cazzo di sbirro era allenato, non guadagnava terreno e non ne perdeva, avrebbe perso il primo che mollava. Tarez mollò il marsupio sperando servisse a qualcosa ma niente, quello ansimava come un treno ma non mollava un metro.
Correva come il vento e rideva, rideva pensando a quando correva via dalla guerra, da suo padre ubriaco, dalla sua ragazza incinta, dal comunismo e dal suo paese, avrebbe seminato anche quel poliziotto, non c’erano dubbi.
La sua era un fiaba felice, non l’ennesima storia di immigrati clandestini che vengono rispediti al loro paese. Lui sarebbe diventato qualcuno in quel paese pieno di fessi che aspettavano proprio un tipo sveglio per farsi fottere, anche in senso letterale.
La sabbia volava leggera sui suoi passi, pensò di lasciare le scarpe ma l’esitazione gli sarebbe stata fatale.
Ormai erano minuti che scappava e la luce del molo era sempre più vicina, e quello non mollava.
Si girò indietro per vedere la situazione, per controllare se qualcosa era cambiato.
Non appena si fui girato urtò qualcosa con un piede e perse l’equilibrio, fece quattro o forse cinque passi arrancando e poi rovinò malamente a terra.
In un attimo il poliziotto gli sarebbe dovuto essere addosso e invece non arrivava. Quando si riprese guardò in direzione del poliziotto e lo vide in piedi accanto alla cosa che l’aveva fatto cadere.
Appena il faro ebbe compiuto il giro tornando ad illuminare la spiaggia capì che le priorità e gli interessi del poliziotto erano cambiati, che sarebbe potuto fuggire. Ma quello che vide lo paralizzò, vomitò i succhi gastrici di uno stomaco vuoto ed affamato e rimase fermo, incapace di riprendere la sua fuga. Il poliziotto non lo guardò nemmeno, prese un cellulare compose un numero della rubrica.
Tarez non aveva visto la croce fatta con i due remi alle spalle dell’uomo disteso a terra, sanguinante, nudo e morto.


Il ragazzo chiuse la cassa dopo aver terminato di contare i soldi. Il capo era in ferie e quella della cassa era una bella bega da gestire. Anche quella sera il ristorante non aveva lavorato molto e alle undici e trenta la cucina si era già raffreddata e i tavoli erano stati risistemati per il giorno successivo. Era solo, odiava avere addosso tutti quei soldi, duemilottocento euro, da portare in cassa continua.
Controllò il report del POS per vedere se tutto combaciava, c’erano i sessantacinque euro di mancia che aveva raccolto. Normalmente il capo li teneva e a fine mese gli dava duecento euro fuori busta ma quando era in ferie quelli erano soldi suoi.
Si tolse le scarpe nere, i pantaloni con la stiratura a filo neri e la camicia bianca. Mise tutto nell’armadietto senza perdere mai di vista il marsupio coi soldi, attraversò di nuovo la sala con indosso bermuda e una canottiera che avrebbe dovuto mettere da lavare almeno tre giorni prima, spense le luci, guardò il locale e chiuse tutto. Face mente locale pensando ad interruttori, serrature, impianti da chiudere e macchine da spengere. Tutto fatto, il suo giro di chiusura ormai era collaudato. Si girò per vedere che non ci fosse nessuno e si sedette sulla sella della sua Honda aspettando che le sue mani trovassero una sigaretta. Sfregò un fiammifero e da ombra nella notte diventò un puntino rosso incandescente a mezz’aria.
Si passò una mano nei capelli sporchi da tutto quello che una cucina di un ristorante può contenere e aspirò un'altra boccata. Gli venne la mezza voglia di andare a puttane, la statale non era lontana ma era troppo carico di soldi, stanotte non avrebbe avuto compagnia. Pensò a se stesso, troppo stanco per fare pensieri positivi si fece trascinare in una comoda autocommiserazione. Venticinque anni, senza diploma e senza alcun mestiere particolare da vantare, faceva diverse cose nel ristorante vicino alla basilica di sant’Apollinare in Classe da tre anni, dopo aver lasciato la sua schiena e molte delle sue notti al porto. Aveva però la fiducia del proprietario, se l’era guadagnata da subito quando aveva smascherato due finti turisti che tentavano di truffarlo con un trucco da autogrill. Li aveva smascherati ed il proprietario lo aveva elevato al rango di “figliochenonhomaiavuto”. Questo gli aveva impedito di andarsene in diverse occasioni.
Spense la sigaretta con il tacco e si mise sulla sua moto. La accese, spinse verso l’alto la leva del cambio, rilasciò la leva della frizione mentre distrattamente dosava il gas e si avviò verso la città. Non essendoci nessuno decise di passare davanti alla basilica, sulla pista pedonale, per tagliare. Non appena fu all’altezza della Porta d’ingresso notò uno strano ammasso che spezzava l’armonia dell’ampio prato davanti alla basilica. Pensò fosse un sacco dei rifiuti lasciato da qualche corriera di turisti barbari e tirò dritto. Giunto alla fine della pista pedonale, prima di immettersi sulla strada fu folgorato da un pensiero carico di senso civico che non aveva mai avuto e che da quel giorno in avanti non gli sarebbe neppure più tornato. Girò la moto e si diresse a raccogliere il sacco di rifiuti per dare una lezione di civiltà a quei cazzo di stranieri così arroganti e poco generosi con le mance.
Giunse al prato, diresse il faro verso il sacco e capì che sarebbe stato meglio andarsi a casa. Sul prato basso della piazza antistante la basilica infatti non c’era un sacco dei rifiuti ma un cadavere, non di un morto pensò, di un assassinato.
Pensò a cosa fare, ai soldi del ristorante, alla sua moto, al suo lavoro a quelle due segnalazioni che aveva racimolato in questura qualche anno prima e fece la cosa che ritenne più giusta: chiamò il centotredici.
Il telefono squillò per un poco, quando dall’altra parte un accento siculo rispose riuscì soltanto a dire: “aiuto, è morto, non respira c’è sangue oddio” e poi vomitò gli avanzi di pesce che aveva mangiato prima della chiusura e lasciò cadere il cellulare che si spense.

INCIPIT

Mosaico di Morte è un libro giallo ambientato nella mia città, Ravenna.
Ecco spiegato il perchè del titolo.
L'idea di base nasce tanti anni fa e l'ho sviluppata in notevoli versioni poco ben fatte.
Ho scirtto, riscritto senza trovare mai la giusta versione, senza goderne quando ne vorrei.
In testa mi piace molto quello che penso, le cose che vedo, scritte non sempre.
Questo mi ha rallentaato fino a bloccarmi.
Questo blog è il tentativo di dargli un ultimo spunto fino alla conclusione....